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L'INCIDENTE

L’esplosione che non doveva accadere: come il razzo Starship di Elon Musk ha incrociato pericolosamente le rotte dei voli caraibici

Tre aeromobili, circa 450 persone, e una pioggia di metallo nel cielo notturno tra Florida e Caraibi. Cosa è successo davvero il 16 gennaio e perché l’incidente ha messo a nudo una falla nella convivenza tra traffico aereo e nuove mega‑lanciatori

Alfredo Zermo

22 Dicembre 2025, 14:56

L’esplosione che non doveva accadere: come il razzo Starship di Elon Musk ha incrociato pericolosamente le rotte dei voli caraibici

Un anello luminoso attraversa il buio sopra le Turks and Caicos. A terra, turisti e residenti alzano lo sguardo, qualcuno filma. In quota, i comandanti chiamano i controllori: “fuel emergency”, “holding”, “risk area”. Nel giro di pochi minuti, il test del più potente razzo al mondo — Starship — è diventato un caso da manuale su come un evento spaziale può trasformarsi in minaccia concreta per l’aviazione civile. Il 16 gennaio la navicella di SpaceX è esplosa dopo il decollo dal Texas meridionale, e i frammenti sono precipitati su una porzione di cielo tra Florida e Caraibi attraversata da corridoi aerei affollati. Secondo un’analisi incrociata di documenti della FAA, ricostruzioni giornalistiche e dati di tracciamento, almeno tre aeromobili — due di linea e un jet privato — si sono trovati a fare i conti con quella “pioggia di detriti”, mettendo potenzialmente a rischio circa 450 persone a bordo.

Cosa è accaduto

Il razzo Starship, al suo settimo volo di prova, decolla alle 17:38 locali (le 23:38 in Italia) dal sito Boca Chica in Texas, con un profilo di missione suborbitale. Pochi minuti dopo la partenza, l’upper stage subisce un’anomalia e si disintegra in volo. Lo scenario è quello che in gergo SpaceX definisce “rapid unscheduled disassembly”, l’eufemismo tecnico per “esplosione”. La scia di frammenti illumina il cielo sopra l’arcipelago britannico di Turks and Caicos. Fonti indipendenti e video amatoriali confermano la caduta di detriti incandescenti.

In quelle stesse decine di minuti, nel settore aereo che sovrasta le isole e il mare circostante, transitano voli di linea diretti o in partenza verso Porto Rico e altre destinazioni caraibiche. Un’analisi pubblicata dal Corriere della Sera — basata su mappe ufficiali e su dati di tracciamento — rileva che almeno 23 velivoli si trovavano oltre i 20.000 piedi nelle aree di pericolo identificate dall’autorità federale americana. La stima dei 450 passeggeri a bordo dei tre aerei più esposti deriva da capienza e load factor tipici dei modelli in questione.

In rapida sequenza i controllori del traffico aereo tra i centri Miami e San Juan dispongono attese e deviazioni; un aereo di JetBlue in avvicinamento a San Juan entra in holding per evitare l’area, mentre un Iberia di lungo raggio e un jet privato si ritrovano a dover ripianificare con margini di carburante che diventano via via più stretti. In almeno un caso viene dichiarata un’emergenza carburante; le registrazioni del traffico radio riportano messaggi del tipo “proseguite a vostro rischio” nell’attraversamento della zona contaminata da detriti. Non si registrano feriti né danni ai velivoli, ma la situazione è tesa: in totale si contano diverse deviazioni e ritardi.

Questa è la cronaca essenziale. Ma dietro le voci in cuffia e le scie nel cielo c’è una storia più grande: l’intersezione, ancora incompiuta, tra un’industria spaziale che cresce a ritmi da record e un sistema di gestione del traffico aereo pensato per rischi e densità di traffico “tradizionali”.

Il punto di rottura

Secondo la Federal Aviation Administration, l’anomalia del 16 gennaio ha richiesto l’attivazione di una “Debris Response Area” — una procedura straordinaria che scatta se si ritiene che frammenti possano cadere al di fuori delle zone di pericolo pre‑chiuse, i cosiddetti “aircraft hazard areas”. L’attivazione ha comportato rallentamenti, holding e almeno alcune deviazioni. La stessa FAA precisa che diversi aeromobili hanno chiesto di modificare la rotta perché in attesa ai margini dell’area impattata i loro margini di carburante si stavano assottigliando.

Questo passaggio è cruciale: i lanci spaziali negli Stati Uniti sono ormai routine — SpaceX è da anni il vettore con più missioni annuali — e la chiusura preventiva di porzioni di spazio aereo è prassi. Ma se l’anomalia produce un campo di detriti che sfora i volumi preclusi, le torri e i centri di controllo devono improvvisare in un contesto internazionale: gran parte di quell’area è sotto FIR diverse (Flight Information Regions), con responsabilità che si spostano tra Stati Uniti, territori britannici d’oltremare e Stati caraibici. Coordinamento e tempestività informativa diventano allora la vera linea di difesa.

Il nodo della comunicazione

Una parte delle ricostruzioni giornalistiche si concentra sul ritardo nella catena di allerta tra operatore del lancio e autorità aeronautiche. Secondo documentazione citata da testate statunitensi, il flusso informativo su quanto stava avvenendo in quota non sarebbe stato immediato e completo, lasciando per una finestra di circa 50 minuti uno scenario di incertezza. In quel lasso di tempo, piloti e controllori hanno dovuto decidere se attendere fino ai limiti del carburante disponibile, deviare su scali alternativi (con tutti i vincoli operativi e di saturazione piste) o addirittura attraversare il settore interessato assumendosi un rischio calcolato.

A posteriori, la FAA ha aperto e poi chiuso — il 28 marzo 2025 — l’indagine di mishap su “Flight 7”, attribuendo la perdita del veicolo a vibrazioni più intense del previsto che hanno portato al cedimento di componenti del sistema propulsivo. La stessa FAA ha certificato l’implementazione da parte di SpaceX di 11 azioni correttive, consentendo quindi la ripresa dei test con “Flight 8”. Da notare: nella comunicazione ufficiale, l’agenzia sottolinea l’assenza di feriti al pubblico e un solo report confermato di danno minore a beni in superficie nelle Turks and Caicos.

Qui sta il punto: la distanza tra il rischio potenziale — tre velivoli costretti a decisioni difficili con centinaia di passeggeri a bordo — e l’esito per fortuna incruento non deve ingannare. La vulnerabilità emersa è reale e riguarda la latency della catena informativa. In un teatro aereo affollato, minuti e secondi fanno la differenza.

Le voci dal cielo

Un Airbus A321 di JetBlue diretto a San Juan entra in holding prolungato. Secondo i dati open source e la stampa specializzata, la compagnia confermerà successivamente deviazioni e stop temporanei.

Un Airbus A330 di Iberia nella stessa area si trova a dover ripensare la traiettoria con i margini di carburante che si assottigliano. La situazione porta a dichiarazioni di emergenza carburante: una mossa procedurale per ottenere priorità e chiarire che la capacità di attesa è finita.

Un Gulfstream privato, in rotta dall’area di New York, rientra nel novero dei voli che hanno dovuto rivedere assetto e piano, tra finestre di accettazione negli scali alternativi e una rete aeroportuale che, in Caribe, può andare in saturazione rapidamente quando una manciata di aerei chiedono tutti di atterrare “ora”.

In parallelo, altri vettori segnalano impatti: Delta comunica quattro deviazioni su rotte da/per i Caraibi in quel frangente; American Airlines parla di “meno di dieci” casi. Le piattaforme di tracciamento come Flightradar24 mostrano ventagli di holding disegnati sugli schermi, mentre fonti locali raccontano di scie incandescenti ben visibili a occhio nudo sopra Grand Turk.

La prospettiva delle istituzioni

La FAA ha gestito l’evento attivando la Debris Response Area e attuando le procedure previste in caso di “falling debris”. Le misure includono:

  • comunicazioni periodiche a stakeholder e compagnie;
  • rallentamento e, se necessario, stop alle partenze potenzialmente dirette verso i volumi interessati;
  • deviazioni e holding per gli aeromobili già in volo, fino a dissipazione del rischio.

Sul piano investigativo, l’agenzia ha supervisionato l’inchiesta di SpaceX, chiudendola con indicazioni tecniche puntuali — le già citate 11 azioni correttive — e ha successivamente autorizzato il ritorno in volo del veicolo con Flight 8. La cornice è chiara: ogni “return to flight” è subordinato alla verifica che processi, sistemi e procedure non impattino la sicurezza pubblica.

Nel frattempo, il dibattito tra piloti, controllori, compagnie e operatori spaziali ha preso una piega concreta: più pianificazione, allerta precoce, strumenti di monitoraggio dei detriti e linee guida condivise su quando e come consentire l’attraversamento controllato delle aree a rischio, per evitare holding al limite del carburante.

Intanto, le immagini di quel 16 gennaio rimangono: una cascata di scintille che attraversa il cielo e la voce, tesa ma professionale, di un comandante che dichiara emergenza. È la fotografia di un confine: se vogliamo davvero che lo spazio diventi parte della nostra quotidianità, dobbiamo mettere quel confine in sicurezza — con procedure, tecnologia e responsabilità all’altezza della sfida.