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Miami, la stanza dove (forse) si prova a fermare la guerra: dentro la «trilaterale» che potrebbe cambiare l’Ucraina

In un hotel di fronte all’Atlantico, emissari americani e russi hanno messo sul tavolo il «piano di Berlino». Kiev rilancia: summit a tre con Europa al seguito. Ecco cosa c’è davvero in gioco, chi tratta, quali linee rosse restano invalicabili.

Redazione La Sicilia

20 Dicembre 2025, 23:57

Miami, la stanza dove (forse) si prova a fermare la guerra: dentro la «trilaterale» che potrebbe cambiare l’Ucraina

La scena è quasi cinematografica: sale climatizzate con vista sull’oceano, badge temporanei, telefoni consegnati all’ingresso. A Miami, tra palme e corsie d’acqua luccicanti, si è tenuto un faccia a faccia che fino a poche settimane fa sarebbe parso improbabile: emissari degli Stati Uniti e della Russia si sono seduti uno di fronte all’altro per discutere di un possibile cessate il fuoco in Ucraina. A rappresentare Washington non c’erano i volti consueti della diplomazia professionale, bensì un terzetto anomalo: il magnate immobiliare divenuto inviato speciale Steve Witkoff, il consigliere di lungo corso e genero del presidente Jared Kushner, e — con un ruolo crescente — il segretario di Stato Marco Rubio. Dall’altra parte, con il mandato di Vladimir Putin, l’economista e banchiere Kirill Dmitriev, figura-ponte tra mondo finanziario e Cremlino. Sullo sfondo, l’idea di un vertice «a tre» — Usa-Russia-Ucraina — che il presidente Volodymyr Zelensky ha definito «accettabile se produce risultati concreti», e la richiesta ucraina di avere al tavolo anche i principali Paesi europei.

Che cos’è il «piano di Berlino» e perché si discute a Miami

Le discussioni di Miami non nascono nel vuoto. Sono l’ultimo capitolo di una fitta serie di contatti iniziati a Berlino a metà dicembre 2025, quando emissari americani hanno incontrato delegazioni ucraine e europee per limare una bozza di intesa che, nelle versioni iniziali, molti a Kiev giudicavano troppo indulgente verso Mosca. In quei giorni, Witkoff e Kushner furono avvistati nella capitale tedesca, mentre alcuni governi europei tentavano di codificare un pacchetto di «garanzie di sicurezza» per Kyiv e di definire il perimetro di un eventuale monitoraggio del cessate il fuoco. Proprio quelle riunioni hanno prodotto il dossier oggi soprannominato «piano di Berlino».

Secondo più resoconti convergenti, la bozza è stata rimaneggiata più volte nelle ultime settimane: da 28 a circa 20 punti, con maggiore enfasi su garanzie di lungo periodo per l’Ucraina e meno su concessioni unilaterali immediate. Restano, però, nodi spinosi: il futuro del Donbas ancora in mano ucraina, il ruolo del nucleare di Zaporizhzhia, la cornice legale per eventuali forze multinazionali di supporto e la gestione dei beni russi congelati.

Chi c’era al tavolo: gli emissari atipici di Washington e il fiduciario di Putin

A colpire è la composizione delle squadre. Sul lato americano operano Steve Witkoff e Jared Kushner, figure nate fuori dai ranghi della diplomazia tradizionale ma già sperimentate su altri dossier negoziali, affiancati da Marco Rubio, che nelle ultime settimane ha assunto un profilo operativo crescente seguendo in prima persona i colloqui con la delegazione ucraina e facendo da cerniera con le capitali europee. Witkoff è indicato come l’inviato speciale che porta la bozza da tavolo a tavolo; Kushner lavora sui canali politici e sui «formati»; Rubio prova a consolidare sostegno e coerenza di messaggio tra Washington, Kiev e Europa.

Sul fronte russo, Kirill Dmitriev — economista con esperienza nei fondi sovrani e descritto come fiduciario del presidente — è l’interlocutore chiave. È lui che, secondo fonti russe, ha ricevuto l’incarico di volare prima in Germania e poi negli Stati Uniti per raccogliere, filtrare e riferire sullo stato dell’arte del dossier. La sua presenza a Miami è stata confermata da diverse testate internazionali.

Le linee rosse: cosa chiedono Mosca e Kyiv

Il fossato tra gli obiettivi dichiarati resta profondo. Mosca ribadisce che l’adesione dell’Ucraina alla NATO è «inaccettabile» e che un cessate il fuoco presuppone il ritiro ucraino dall’intero Donbas, incluse le porzioni ancora sotto controllo di Kyiv. Sono richieste che Kiev respinge: il presidente Zelensky ha più volte chiarito che «non si cede territorio» e che «una pace giusta» non può equivalere a congelare un’occupazione. Nel merito di alcune ipotesi — per esempio zone economiche speciali o fasce demilitarizzate — il leader ucraino ha adottato toni prudenti, indicando come «sensibili» proposte che implichino spostamenti delle linee sul terreno, e insistendo su un principio: «stiamo dove stiamo» fino a un accordo complessivo con garanzie credibili.

Sotto traccia, un’altra variabile: l’idea, circolata a Berlino, di un «congelamento» del fronte con garanzie tipo Articolo 5 — senza però l’ombrello NATO formale — e con un meccanismo di verifica robusto, guidato dagli Stati Uniti e implementato sul terreno da una coalizione europea. Una soluzione che sedurrebbe parte dei partner occidentali ma che per Kyiv deve restare compatibile con la sua sovranità e con una deterrenza efficace nel medio periodo.

Il formato che prende forma: la «trilaterale» e il posto dell’Europa

Nel mezzo della maratona diplomatica, Zelensky ha aperto alla proposta di un summit trilaterale con Stati Uniti e Russia, purché il formato produca «risultati tangibili» — in primis su scambi di prigionieri, corridoi umanitari e un’agenda che conduca a un incontro tra i leader. Non è un sì incondizionato, ma un segnale: Kyiv è pronta a testare lo schema proposto da Washington se al tavolo si siedono anche gli europei, che nelle ultime settimane hanno cercato di “istituzionalizzare” il proprio ruolo dentro il processo, non da semplici comparse.

I motivi sono evidenti. Sul piano delle garanzie, l’Europa mette sul piatto non solo assistenza militare e addestramento, ma anche strumenti di ricostruzione e una potenziale forza multinazionale con funzioni limitate, dalla sorveglianza del cessate il fuoco alla sicurezza marittima nel Mar Nero, fino al supporto cibernetico. Gli europei chiedono però chiarezza su «chi fa cosa» e su come evitare di ritrovarsi in prima linea senza una cornice politico-strategica condivisa con Washington.

Cosa è successo a Miami: segnali, messaggi, avvertenze

A Miami si è lavorato su due piani. Il primo, strettamente negoziale: limare il testo, chiarire le intenzioni, testare l’appetibilità della cornice per Mosca. Il secondo, più politico: inviare messaggi paralleli a Kyiv e alle capitali UE. Da un lato, la disponibilità americana a esplorare formati flessibili pur di arrivare a un cessate il fuoco. Dall’altro, la volontà di non imporre a Kyiv una «pace punitiva». Il senatore Rubio ha parlato di «progressi» e insieme di «lavoro ancora da fare», segnando la distanza tra comunicazioni ottimistiche e la realtà di dossier tecnici ancora aperti.

Il calendario resta stretto. Mentre gli emissari si parlavano in Florida, sul campo la guerra non si è fermata: raid e droni russi hanno colpito infrastrutture ucraine, con vittime civili, mentre Kyiv ha rivendicato operazioni mirate contro asset militari russi. Un promemoria brutale: qualunque ipotesi di «congelamento» deve fare i conti con una spirale di attacchi e ritorsioni che non concede pause prolungate.

Le richieste russe e il margine di manovra

La postura russa, stando alle fonti diplomatiche, non si è ammorbidita su due assi: il «no» definitivo all’ingresso dell’Ucraina nella NATO e la richiesta di un ritiro ucraino dal Donbas ancora controllato da Kyiv. Concessioni «preventive» che Zelensky e la sua squadra bollano come irricevibili, anche alla luce del costo umano e materiale sostenuto dal Paese dal 24 febbraio 2022 in avanti. Dmitriev è arrivato in Florida con questo mandato, pur senza un’autorizzazione a negoziare direttamente con gli ucraini in questa fase.

Dietro la schermatura di richieste massime, a Mosca osservano con attenzione l’architettura delle garanzie: chi le firmerebbe, come si attiverebbero, quanto sarebbero vincolanti in assenza del cappello NATO, e quale ruolo avrebbero gli Stati Uniti nella verifica e sanzione di eventuali violazioni. È su questi dettagli — non solo sulle mappe — che può misurarsi la serietà di un’intesa.

Il dibattito a Kyiv: garanzie sì, «rinunce» no

Sul fronte ucraino la bussola non cambia: «niente scambi territoriali» per la pace. Ma la leadership di Kyiv sa che un accordo sostenibile richiede sicurezza strutturale e investimenti. Per questo sta premendo su tre capitoli: garanzie «tipo Articolo 5» con meccanismi di risposta rapida; un ombrello finanziario pluriennale per difesa e ricostruzione; una presenza europea sul terreno che sia deterrente, non ornamentale.

Ogni ipotesi di «zona economica speciale» o «fascia demilitarizzata» viene valutata con estrema cautela, perché tocca la questione della sovranità e del controllo del territorio. Le dichiarazioni recenti di Zelensky mostrano apertura a discutere «formati» purché non erodano la posizione ucraina al fronte.

Il ruolo dell’Europa: da spettatrice a co-garante

Negli incontri di Berlino, diversi leader europei hanno sostenuto l’idea di una forza multinazionale sotto egida UE/NATO-like ma distinta dall’Alleanza, con compiti circoscritti: monitoraggio del cessate il fuoco, messa in sicurezza di nodi critici (porti, corridoi ferroviari, impianti energetici), supporto a sistemi anti-droni e difesa aerea. In parallelo, si discute l’uso dei proventi dei beni russi congelati per finanziare parte della ricostruzione e del nuovo apparato di difesa ucraino. L’obiettivo dichiarato è passare da «donatori intermittenti» a co-garanti dell’architettura di sicurezza.

Il messaggio politico è duplice: l’Europa non vuole arrivare all’intesa come semplice firmataria a posteriori; e preferisce incardinare qualsiasi monitoraggio sul terreno in un mandato chiaro, limitato, reversibile, evitando ambiguità che la esporrebbero senza adeguati strumenti di de-escalation.

Gli ostacoli immediati: mappe, tempi, verifiche

Mappe: la richiesta russa di un ritiro ucraino dal Donbas residuo è respinta da Kyiv; ogni «fascia di sicurezza» dovrà essere rigorosamente simmetrica e verificabile.

Tempi: si ragiona su un calendario che vada dalla cessazione del fuoco alla messa in opera delle garanzie, con milestone ravvicinate e revisione tecnica continuativa.

Verifiche: la proposta sul tavolo punta a un monitoraggio con leadership USA e implementazione europea, senza «boots on the ground» americani ma con asset tecnologici e d’intelligence condivisi. Serve un mandato chiaro per ispezioni, accesso ai siti e sanzioni automatiche in caso di violazioni.

Perché proprio adesso: la finestra (stretta) per un negoziato credibile

Il 2025 ha visto crescere la pressione per trovare un atterraggio negoziale: usura del conflitto, risorse da rifinanziare, logistica messa a dura prova e una geografia del fronte che cambia a ondate. Gli Stati Uniti spingono un formato «realistico», le capitali europee cercano di legarlo a una cornice strategica sostenibile, Kyiv accetta di testare strade nuove pur di non pagare un prezzo politico insostenibile. La finestra resta stretta: sul campo proseguono attacchi e ritorsioni, e ogni «pausa» non accompagnata da meccanismi di verifica rischia di evaporare in giorni.

Percjhé Miami conta davvero

Le ore di Miami non hanno risolto la guerra, né avrebbero potuto. Ma hanno creato un canale di comunicazione strutturato tra Washington e Mosca attorno a un testo negoziale che — per la prima volta da mesi — ha un perimetro riconoscibile e una geometria variabile in cui l’Europa non è chiamata solo a finanziare, bensì a co-gestire. Il test vero arriverà con la trilaterale: se riuscirà a mettere in fila cessate il fuoco, meccanismi di verifica e garanzie credibili, allora il «piano di Berlino» potrà diventare una traccia di pace imperfetta ma concreta. Se invece il braccio di ferro sulle mappe prevarrà, la finestra rischia di richiudersi, lasciando al campo — ancora una volta — l’ultima parola.