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La storia

"Abbandonato sulla sedia se l’attesa diventa agonia tra freddezza e veri angeli"

La denuncia della figlia di un paziente all'ospedale Umberto I di Siracusa, tra indignazione e dolore, ma anche di speranza grazie all’impegno di operatori sensibili

11 Novembre 2025, 14:45

"Abbandonato sulla sedia se l’attesa diventa agonia tra freddezza e veri angeli"

Diciotto ore su una sedia nella sala d’attesa del Pronto Soccorso dell’Umberto I, dove avrebbe dovuto fare chemio e analisi. Tremante, impaurito, frastornato. Solo. Quando Patrizia Pecorella ha visto che il padre Salvatore – gonfio come un otre per un versamento pleurico e invaso da una massa tumorale non operabile rilevata all’ospedale di Trapani dove era stato ricoverato per 1 settimana – sembrava un bambino abbandonato, ha provato a fiondarsi da lui, ma di fronte alle telecamere che riprendevano l’interno della stanza le è stato detto di non poter guardare per questioni di privacy.

Un passo indietro: Papà è stato prima ricoverato per una settimana nel reparto Oncologia, dove si era trovato bene e in un clima quasi familiare. Dimesso, e in attesa dei risultati di un esame citologico, è stato rimandato a casa. Improvvisamente, dopo 3 giorni, la sua voce non era più la stessa, confusa, tirata. Tre giorni dopo ancora, l’uomo era gonfiato all’inverosimile.

Da qui la corsa al Pronto Soccorso, i primi esami e la prima attesa dalle 11 alle 16 per una visita. Nessuno ci ha proposto una sedia a rotelle, per fare una radiografia, lui gonfissimo, l’ho accompagnato io a piedi. Poi la sosta in sala d’attesa al Pronto Soccorso. Lì, seduto su una sedia senza braccioli, con una flebo nel braccio, Patrizia saluta il padre, perché mi dicono che avrebbero chiamato loro.

Ma non arriva alcuna chiamata, e così Patrizia il mattino dopo si reca di nuovo in ospedale. Al triage, papà era ancora lì, col braccio penzolante. Un uomo della sicurezza però mi intima di non guardarlo dalle telecamere “per privacy”. Metto papà su una poltrona, gli sollevo i piedi. Patrizia chiede cosa fare e mi viene risposto che papà – impaurito, stremato - deve essere dimesso e che non ci sono posti. Per pietà lo spostano in Ortopedia, poi in Geriatria, in una stanza con 4 donne, e divorato dalla mortificazione gli mettono catetere e pannolone.

Patrizia corre in Oncologia, disperata supplica che il padre che moralmente è ormai spento venga spostato lì. Avviene, dagli esami risulta uno scompenso cardiaco e una polmonite, parte la terapia. Papà se ne è andato in una settimana, prostrato, umiliato, sfinito.

Lei, adesso che lui non c’è più, sottolinea la penuria di posti letto all’Umberto I, l’alternanza tra angeli di buon cuore e professionalità ed altri che sembrano freddi e senza cuore, stigmatizzando che un uomo venga sbattuto da un reparto all’altro come una cosa. Però Patrizia sente di dover dire che in Oncologia di umanità ne ho percepita tanta, a differenza della freddezza che sostiene di aver riscontrato al Pronto Soccorso dove mio padre è stato lasciato per 18 ore solo, su una sedia, come un oggetto inanimato.

Un percorso terribile, doloroso, che vorrei nessun’altra famiglia vivesse. L’ultima cosa che ci ha detto papà è stata “io da qui non ne uscirò, lo so”. Se potessi parlargli per un secondo, gli direi “perdonami, per non essere riuscita a portarti via”. Era un uomo felice, uno sportivo. L’ho visto spegnersi solo. Non accuso nessuno, ma che in una città di 130 mila persone un uomo non trovi da subito un posto in ospedale, è ai limiti dell’inumanità.