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“Una sedia, una spazzola, una città intera”: perché Caltanissetta chiede una statua per lo sciuscià Peppino Romano

L’ultimo lustrascarpe del Corso: una vita di gesti minimi che hanno lucidato la memoria collettiva. Dalla routine delle mattine al sistema dei bigliettini degli anni ’50

Redazione Caltanissetta

21 Dicembre 2025, 17:56

17:58

“Una sedia, una spazzola, una città intera”: perché Caltanissetta chiede una statua per lo sciuscià Peppino Romano

All’alba, quando le saracinesche sono ancora mezze abbassate e la luce si infila tra le facciate liberty del Corso Umberto I, c’era una piccola isola di ordine che si ricomponeva sempre uguale: una sedia di legno, uno sgabello, una cassetta vissuta di legno e latta, stracci e creme, spazzole dalle setole consumate. In quell’angolo di strada, un uomo di oltre 90 anni si piegava sulle scarpe dei passanti con la naturalezza di chi conosce a memoria il proprio mestiere e la propria città. Quel gesto – lucidare una tomaia, rianimare una punta – sembra poca cosa. Ma a Caltanissetta significava riconoscere un patto: la manualità al servizio dell’orgoglio quotidiano, la cura come forma di convivenza. Ora che Giuseppe (Peppino) Romano non c’è più, quella sedia è diventata una domanda: come si conserva un’eredità che non è solo lavoro, ma linguaggio comune? E come si dà forma visibile a un simbolo invisibile? È qui che nasce la proposta: una statua in bronzo per lo “sciuscià” che per più di ottant’anni ha presidiato il cuore della città.

Un uomo, un mestiere, un luogo: la geografia sentimentale di una città

Per i nisseni Peppino Romano non è stato semplicemente “l’ultimo lustrascarpe”: è stato un pezzo di Corso Umberto I, un punto fisso nella mappa emozionale di Piazza Garibaldi e delle traverse che la incorniciano. Ogni mattina, “sempre sorridente e affabile”, arrivava con i suoi attrezzi, si sistemava e aspettava: a partire dalle 7:30, in tutte le stagioni, senza clamori. Così lo raccontano, da anni, reportage televisivi, fotogallerie e articoli che hanno fatto di quel rito un patrimonio collettivo.

La notizia della sua scomparsa, negli ultimissimi giorni del 2025, ha attraversato i social e le bacheche dei giornali locali come un sussulto condiviso. Il Comune di Caltanissetta, guidato dal sindaco Walter Tesauro, ha espresso il cordoglio ufficiale: “Perdiamo un pezzo della nostra storia quotidiana”. Non un eccesso retorico: una constatazione. Perché nella figura di Romano si tenevano insieme almeno tre elementi che altrove vivono separati: la dignità del lavoro manuale, la continuità della memoria urbana e il rapporto diretto con chiunque si sedesse su quello sgabello.

Com’era quando Caltanissetta aveva i bigliettini numerati

Negli anni ’50, in quella stessa grande piazza nissena – tra Piazza Garibaldi, Corso Umberto I e Corso Vittorio Emanuele II – i lustrascarpe erano circa 32. Tanti, così tanti che, nelle giornate affollate, si ricorreva ai bigliettini numerati per mettere ordine tra i clienti. Romano, allora, era un ragazzino di meno di 13 anni; aveva imparato il mestiere dal padre e lo praticava con i fratelli. Nel racconto della città, quella stagione profuma di cuoio e di lucido, e parla una lingua che la modernità ha quasi dimenticato: la lentezza dei gesti, l’idea che le scarpe dicano qualcosa di noi, l’abitudine di “passiare” lungo il Corso per farsi vedere e guardare.

Non c’è nostalgia facile in questo quadro: c’è l’evidenza di un ecosistema urbano in cui i mestieri di strada erano infrastrutture sociali tanto quanto i tram o le edicole. E c’è il termine, “sciuscià”, che arriva dal dopoguerra e dall’anglicismo deformato di “shoe-shiner”, passato attraverso il cinema e l’immaginario popolare, poi adottato in Sicilia come sinonimo di lustrascarpe. È una parola-chiave per capire il valore antropologico di quel lavoro e, più in generale, la trasformazione del paesaggio commerciale e dei consumi nel secondo Novecento.

Un riconoscimento in vita e una memoria da scolpire

Nel 2021, per i suoi 90 anni, l’allora sindaco Roberto Gambino gli consegnò una medaglia commemorativa con una motivazione che suona oggi come un epitaffio civile: “Per una vita dedicata al suo lavoro di lustrascarpe, simbolo di una tradizione scomparsa da non dimenticare”. Nello stesso periodo, servizi televisivi e articoli gli hanno dedicato ritratti affettuosi, raccontandone la puntigliosa dedizione e il rapporto con il quartiere. In un’intervista, si accennava anche alla possibilità di un imminente conferimento di onorificenza nazionale: segno, in ogni caso, della considerazione pubblica maturata attorno alla sua figura.

Oggi, nel giorno del lutto, la proposta avanza con nettezza: il prof. Leandro Janni, vicepresidente regionale di Italia Nostra Sicilia, chiede al Comune la realizzazione di una scultura in bronzo da collocare “nel luogo dove egli ha vissuto e lavorato, sempre sorridente e affabile”. L’idea non è un vezzo estetico: è un progetto di tutela della memoria in forma plastica, coerente con la lunga battaglia civica di Janni sulla salvaguardia del centro storico e dei suoi simboli. Una proposta che, proprio perché sobria e concreta, ha il pregio di aprire un discorso più ampio: come si decide cosa merita di diventare monumento in una città che ha spesso faticato a raccontare sé stessa?

“A botta du Mastru”: un ragazzino diventa icona

Nel 2022, il documentarista allora diciannovenne Francesco Petrantoni vinse il Cuneo Film Festival con lo short “A Botta du Mastru”, proprio sulla figura di Giuseppe Romano. È un dettaglio importante: un giovane che racconta un anziano artigiano dice di una staffetta generazionale possibile, di un interesse che attraversa età e linguaggi. Il corto, per quanto breve, ha fissato immagini e suoni – le spazzole che corrono, il rumore del Corso – che ora diventano archivio prezioso, patrimonio di tutti.