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Cultura e società

Siciliani quando ci conviene

Da meme a presa di posizione: Marco Castello smentisce il feat con Rosalía e accende la riflessione sull'industria che trasforma il siciliano in accessorio commerciale, valorizzandolo più per marketing che per le comunità locali.

Redazione Siracusa

05 Novembre 2025, 19:14

Siciliani quando ci conviene

Davide Giusto Guidi

Partiamo dal dire che la mia risposta è si, ha ragione. Tutto è iniziato dai social, tra meme e battute che volevano Marco Castello protagonista di un improbabile feat con Rosalía nel nuovo album "Lux" della cantante catalana (album di cui tanto si parla con entusiasmo, anche perché cantato in un tot di lingue diverse tra cui anche il siciliano).

Pagine, fan, curiosi: tutti a chiedere se fosse vero. Marco risponde con un semplice “megghiu che mi staiu mutu". Una frase per non dire cosa ne pensasse davvero. Ma il web ha capito quello che voleva: in molti hanno percepito una conferma del feat. Quella frase è diventata il grilletto per un'esposizione di pensiero che Marco avrebbe preferito evitare ma che è stato, in un certo senso, chiamato a fare. Marco ci tiene a precisare che la sua non è una critica al nuovo album “Lux” ma semplicemente un pensiero rispetto al pubblico.

Marco Castello, cantautore siracusano, classe ‘93, ha conquistato i palchi di tutta Italia e non solo, registrando anche sold out a Londra e in altre capitali europee. Marco non è uno che cavalca bandiere. La sua sicilianità non è esibita con ostentazione: la porta avanti in modo puro, diretto, vivendo e raccontando il quotidiano di chi cresce davvero a Siracusa, con ironia, disincanto e consapevolezza. Marco è anche la voce di chi tra i siracusani (scherzando direi: che ci sono con la testa), vorrebbe rivedere le luci calde in Ortigia e non perde occasione per ricordare al sindaco e alla città la bellezza dei centri storici che hanno resistito all'invasione dei led bianchi mantenendo luci calde. Le sue storie Instagram dalle piazze principali d'Europa testimoniano questa battaglia cittadina.

Quando Marco rompe il silenzio, è diretto: "Ovviamente non ho fatto nessun feat con Rosalia, non so se avete presente la sua enormità commerciale... e come se stesse considerando possibile che mi abbiano convocato a suonare agli halftime del Superbowl, cioè in un contesto, in cui mi spiace rovinarvi la poesia, la musica è solo una vetrina per spingere interessi economici che io, buongiornissimo, sorpresa, non rappresento".

Non è falsa modestia. È lucidità. Sa benissimo quale sia il peso specifico nel mercato globale. La distanza tra Marco e Rosalía non è musicale: lei rappresenta una macchina dello show business, lui rappresenta se stesso e al massimo una parte di cultura locale e nazionale che gli appartiene. E questa è la premessa da capire prima di toccare il vero tema. Perché il problema non è che Rosalía canti in siciliano. Il problema è quello che rappresenta quel gesto dentro un sistema che funziona sempre allo stesso modo.

"Il meglio che mi sto muto era riferito alla mia personalisima opinione sulla scelta di un prodotto commerciale globale che secondo me contribuisce, come tutta l'industria discografica occidentale commerciale, all'omologazione culturale". Marco non parla di Rosalía come artista. Parla di un'industria che trasforma le lingue in accessori, le culture locali in trending topics quando fa comodo.

L'industria discografica occidentale ha un metodo preciso: saccheggia la cultura identitaria, quella di nicchia, la trasforma in merce, la vende al centro, e il centro la riscopre come "novità". Nel frattempo, chi quella cultura la vive davvero – chi ci è dentro, ci respira, ci cammina – rimane invisibile. È un processo di estrazione, non di celebrazione.

Ecco dove Marco tocca il punto più delicato: "Rosalia è catalana e avrebbe una stupenda lingua da spingere, mentre in Sicilia posso assicurarvi si canti, anche a causa di prodotti validissimi come il suo, più in spagnolo che in siciliano. Le briciole culturali... sono spazzate via dalle tendenze globali. E la prova... la viviamo ogni giorno da quando in Sicilia dai millennial alla Gen Z si sappia più cosa sia un avocado toast che non un macco".

A queste parole non resta che aggiungere Amen. Marco ha ragione nel sottolineare una contraddizione evidente: il siciliano rifiutato dai siciliani stessi per decenni, sacrificato sull'altare della modernità globale, il massimo del siciliano concesso è quello “scimmiottato” da attori romani nelle serie televisive.

"Sono cinicamente divertito (anche io) dall'entusiasmo generale per qualcosa che non vi sareste mai calcolati e che anzi spesso e volentieri avete deliberatamente rifiutato e che invece adesso vi appare improvvisamente interessante solo perché vi fate aprire gli occhi no sense da un popstar mondiale, cioè come auspicare il riconoscimento dei Vota-Vota passando da un menù del McDonald's".


Non una condanna, una riflessione. Marco specifica: "Non scondinzolo all'idea che Rosalia abbia scelto fra le varie lingue, anche il siciliano". Non è una condanna dell'album. È una riflessione su come le scelte commerciali funzionano e a chi convengono.
E qui arriva il punto fermo: "I riflettori sulle culture regionali dovrebbero accenderli i locali e non le multinazionali complici dell'appiattimento, laddove non della cancellazione, di quelle stesse culture". Il potere di validare una cultura dovrebbe stare in chi la vive, non in chi la consuma.

Non è rabbia quella che conclude il ragionamento di Marco, è una malinconia consapevole: "Mi rattrista semplicemente riflettere sul fatto che probabilmente, anche con il contributo di questo grande evento discografico, una bambina siciliana che canterà siciliano canterà Rosalia prima che Rosa. Rosa chi, appunto?".