Stazione di posta 48
Nella casa degli ultimi, dove l’anima torna a respirare
Nel cuore dell’ex convento, operatori e volontari offrono un riparo temporaneo, un pasto caldo e l’occasione di ripartire a chi vive ai margini
Un letto, un pasto caldo, la possibilità di fare la doccia e cambiare gli abiti laceri, socializzare, essere indirizzati per un possibile lavoro.
Questa la parte burocratica e meritoria del progetto “Stazione di posta 48” col Comune e la partecipazione di volontari e associazioni, capofila la cooperativa Kolbe. Una capsula della solidarietà in via Ermocrate.
Ma c’è di più, oltre le mura dell’ex convento. Poco di spiegabile a parole, bisognerebbe muoversi invisibili tra gli invisibili per percepire quale portale si apra, varcata la soglia. Come l’idea alla base del progetto venga superata dalla realtà sociale e umana di chi si presenta per un aiuto.
La Stazione, di fatto, agisce come una macchina a raggi X: rende visibile l’invisibile, in questo caso persone abituate ad essere trasparenti per strada se non quando percepite come un fastidio, con i loro piattini o le mani sporche tese per l’elemosina, l’odore di notti a dormire per terra, a volte i disturbi psichici che li invadono come diavoli e li rendono inavvicinabili, la solitudine, la disperazione.
L’ultimo caso, scovato da La Sicilia, è quello della barbona Piera e del cane Pet, che dopo mesi di vita homeless saranno accolti nella struttura, e la loro permanenza eventualmente prorogata. Perché qui si giunge sull’onda della necessità, si batte alla porta, si chiede un aiuto. La notte, per almeno una settimana, per 6 persone alla volta, è assicurata, come la colazione e la cena, la possibilità di fare una doccia e ottenere un cambio d’abito.
Sembra cosa da nulla, ma l’uso di un wc e una doccia possono davvero – fermi restando i problemi collaterali – far ritrovare l’anima a persone che pensano di aver perduto ogni speranza.
Gli operatori, stimolati e rispettosi della privacy, raccontano della trasformazione di uno tra i tanti, Gianni (nome di fantasia n.d.r.) trentenne, i piedi distrutti nelle scarpe sformate, dignitoso nella sua richiesta di aiuto.
«Più di tutto il ragazzo vuole lavorare – racconta Peppe, uno dei collaboratori del presiedente Stefano Elia – ma la sua dignità l’ha sempre spinto a non presentarsi ai colloqui di lavoro in quanto vestito da straccione».
Un’anima bella nascosta tra panni luridi e puzzolenti.
«Ha fatto una doccia da noi, la prima da tantissimo tempo. Ha indossato abiti nuovi e puliti. Il viso gli si è aperto in un sorriso radioso. Ripulito nell’aspetto e nell’anima, poteva fare il suo colloquio di lavoro senza vergogna».
Solo una cosa ha chiesto: «Ha voluto un mocho per raccogliere l’acqua della doccia dal pavimento. Il suo modo di dire grazie».
Intanto, con la lentezza delle realtà presenti ma discrete, gli arrivi proseguono, scampoli di un’umanità dignitosa e dolente, gli ultimi degli ultimi, donne, uomini, anziani, giovani. Laceri, affamati, spossati da notti dure e insonni. La povertà assoluta non ha età, né sesso. Ha solo ali tarpate dalla sporcizia e dalla solitudine.
Qui, silenziosamente, si cerca – come in altre realtà gemelle cittadine – di ridare vigore al corpo e fiducia all’anima, una mano amica che stringe quella di chi ha nulla e prova ad indicare un’alternativa sociale.